I Romani diffusero la pianta dell'olivo
Naturalis Historia - Plinio il Vecchio elencava ben 22 diverse varietà e qualità di olivo

La storia dell'olio e della sua coltivazione è profondamente legata alla storia di Roma e di tutto il territorio regionale. Il legame che da sempre ha accomunato la produzione degli oliveti laziali con la città di Roma si evince facilmente dall'importanza che questo prodotto ha rivestito e riveste tutt'ora non solo da un punto di vista economico, ma anche culturale e sociale.

Pianta millenaria, anticamente l'olivo era ricoperto da un'aura di sacralità; secondo il mito romano fu Ercole ad introdurre l'olivo dal Nord Africa, mentre la dea Minerva avrebbe insegnato agli uomini l'arte della coltivazione e l'estrazione dell'olio.

Numerosi reperti archeologici testimoniano la presenza dell'olivo nel Lazio già a partire dal VII secolo a.c., come ad esempio vasi di diverse dimensioni destinati alla conservazione di olio per uso alimentare. Le prime forme di sviluppo dell'olivicoltura, come la messa a punto di rudimentali tecniche di produzione dell'olivo, sono invece riconducibili alla popolazione degli Etruschi e dei Sabini stanziati nei territori laziali.

Furono però i Romani a diffondere la pianta dell'olivo in tutti i territori conquistati e ad affinare le tecniche di coltivazione, raccolta e produzione delle olive.

In numerosi trattati di agronomia dell'epoca la pianta dell'olivo fu oggetto di studi ed osservazioni.

Nel I secolo d.C. nel suo Naturalis Historia Plinio il Vecchio elencava ben 22 diverse varietà e qualità di olivo descrivendone tecniche di coltivazione e sistemi di produzione.

I romani furono i primi ad adoperare una classificazione per le differenti tipologie di olio, in base al periodo di raccolta delle olive l'olio era suddiviso in tre categorie:

- Oleum acerbum o aestivum, l'olio derivante dalla spremitura delle olive cadute in estate.

- Oleum omphacium, l'olio che si ricavava dalle olive raccolte tra novembre e dicembre.

- Cibarium o maturum o romanicum, l'olio ottenuto dalle olive raccolte tardivamente tra gennaio e marzo.

Oltre a classificare l'olio gli antichi romani avevano pensato ad una etichetta ad hoc che ne garantisse la tracciabilità: le anfore ritrovate sul Monte dei Cocci riportavano un bollo che specificava provenienza, quantità e qualità dell'olio messo in commercio. Da una stima fatta sul numero di anfore olearie ritrovate sul Monte dei Cocci - una vera e propria discarica a cielo aperto in cui si ammassavano i frammenti delle anfore esauste - è stato calcolato che in media ogni cittadino consumasse circa due litri di olio al mese, quantitativi che testimoniano quanto il famoso "oro verde” fosse un alimento indispensabile sulle tavole dei romani.

L'agricoltura forniva il 70% del reddito e l'80% dell'occupazione, di questa percentuale tanto l'industria olearia quanto quella vinicola costituivano una delle principali fonti di guadagno per Roma. Al fine di stoccare i grandi quantitativi di olio prodotto, la città si dovette organizzare con veri e propri magazzini atti alla conservazione del prodotto chiamati celle olearie. C'erano anche altri tipi di magazzini, gli horrea, in cui era possibile conservare derrate alimentari di vario genere, tra cui l'olio. Per gestire al meglio il suo commercio la città si era dotata anche di una arca olearia, luogo deputato alla contrattazione e compravendita dell'olio che veniva gestita da negotiaroes oleari, veri e propri agenti di cambio. Erano talmente tanti i cittadini coinvolti nelle diverse fasi della filiera dell'olio, che molti di loro si erano organizzati in diversi tipi di associazioni: i mercanti di olio all'ingrosso si erano costituiti in lega, mentre gli addetti ai frantoi avevano creato delle vere e proprie corporazioni. Non ci sono dubbi che l'olio rappresentasse una cospicua fonte di guadagno sia per gli addetti ai lavori ma anche per i cittadini comuni: secondo Catone tra i vari compiti del pater familias c'era quello di tenere il conto dell'olio (Cat. agr.II).

A ulteriore testimonianza del ruolo assunto dall'olivo nell'economia dell'epoca, basti pensare che la sua coltivazione era riconosciuta da tutti come un'attività moralmente degna, rivestita da un valore simbolico, espressione della ricchezza e dell'opulenza dell'impero.

Il territorio della Sabina

Benché molto diffuso, l'olio di qualità, come quello proveniente dalla Sabina che lo stesso Orazio paragonava al blasonato olio estratto dalle olive raccolte nella zona di Venafro, era pur sempre costoso. Ne abbiamo testimonianza dagli scritti di Virgilio e Plinio che, descrivendo ricette in uso all'epoca, come ad esempio l'agliata (una sorta di pinzimonio a base di aglio aceto e "poche" gocce di olio) ne consigliavano un utilizzo parsimonioso.

Le invasioni barbariche nel V secolo decretarono l'inizio di una lunga crisi che non risparmiò neanche il mondo agricolo, soggetto a devastazioni e generale abbandono delle terre coltivate. Nonostante il crollo dell'impero romano e le numerose avversità, l'espansione dell'olivo non si arrestò del tutto, anzi a partire dalla fine del IV secolo l'olivo conobbe un nuovo periodo di splendore; si affermò come coltivazione specializzata nelle zone ad alta vocazione olivicola, la Sabina, Tivoli e più in generale l'alto Lazio.

Ancora nel XIX secolo per lo Stato della Chiesa l'olivicoltura rappresentava una fonte di reddito e di commercio di grande importanza, numerose furono le azioni promosse dallo Stato per implementare la superficie destinata alla coltivazione specializzata dell'olivo. A causa delle gelate che tra i primi del settecento e i primi dell'ottocento arrecarono gravissimi danni alla olivicoltura laziale, il governo pontificio emanò un motu proprio in cui Papa Pio VI concedeva un premio di un paolo per ogni olivo messo a dimora. L'amministrazione francese a seguito dell'instaurazione del suo governo nel 1809 cogliendo il valore economico della produzione di olio di oliva, oltre a confermare le scelte dello stato pontificio compì ulteriori sforzi di sensibilizzazione nei confronti degli agricoltori stanziando ben 12.000 franchi.

All'indomani della presa di Roma del 20 settembre 1870 l'olivo era coltivato in 179 comuni su 227.

Alla fine dell'ottocento la gran parte della produzione olearia del Lazio era ottenuta in frantoi in cui la macinazione delle olive era eseguita con macine verticali in pietra spinte da cavalli, mentre si adoperavano rudimentali torchi in legno per la sua estrazione.

Solo più tardi furono costruiti frantoi moderni, che per le loro caratteristiche strutturali erano in grado di produrre oli di qualità superiore, tra i più rinomati ricordiamo il frantoio di Borghese a Frascati e quello dei Fumaroli a Tivoli.

La storia dell'olivo nel Lazio oggi testimonia la sua diffusione capillare su larga parte del paesaggio agrario; questa regione con la città di Roma non solo ha rappresentato le origini della cultura e della civiltà moderna ma è stata foriera di quello che oggi è uno dei grandi tesori italiani, l'olio extravergine di oliva.